Le tecniche dei cordai castellini

Riportiamo integralmente il testo di Italo Sordi, Le tecniche dei cordai, edito in Mondo popolare di Lombardia, 7, Cremona e il suo territorio, a cura di Roberto Leydi e Guido Bertolotti, Silvana Editoriale, Milano 1979, pp. 222-227

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I metodi di lavoro dei superstiti cordai di Castelponzone sono di particolare interesse non solo in quanto rappresentano una persistenza tutt’altro che comune di una tecnica artigianale molto antica, ma anche perché di questa tecnica documentano una evoluzione del tutto recente e assai particolare, determinata da un lato dalla sostituzione  della materia prima usata in origine, la fibra di canapa (càaneva), con un materiale di recupero, gli spezzoni cioè di fibra di sisal (picàai), usati come legacci per le balle di paglia; e, dall’altro, dall’eliminazione del lavoro dei bambini, a cui erano un tempo, come vedremo, affidati alcuni compiti particolari, ai quali si ovvia oggi con accorgimenti vari. Notevole è anche il fatto che i due gruppi di cordai che sono stati studiati sotto il profilo ergologico usano procedimenti tecnici abbastanza diversi pur fabbricando un prodotto identico da tutti i punti di vista.

La lavorazione della corda si svolge, ora come un tempo, all’aperto, lungo una striscia di terreno – in dialetto sentéer, sentiero; la denominazione italiana è aia di corderia – larga pochi passi e lunga poco più della pezzatura standard della corda prodotta, che è di 70 metri, posta all’estremità di un campo e possibilmente ombreggiata da filari di alberi; ed è singolarmente silenziosa. I cordai lavorano in ogni stagione, salvo che in caso di pioggia, anche per il fatto che la corda impregnata d’acqua non è lavorabile. Non si tratta di un mestiere difficile da imparare o che richiede un lungo tirocinio, almeno con i sistemi attuali di lavorazione: «se uno ha un po’ d’occhio, ci vogliono quindici giorni. Quando c’era la canapa no, ci voleva più tempo» soprattutto perché occorreva acquistare la capacità di ottenere dei legnoli – gli elementi che, ritorti, formano la corda – di grossezza uniforme.

Il passaggio dalla filatura con la canapa a quella con i picàai di sisal ha, come già accennato, portato con sé notevoli modifiche in alcune fasi della lavorazione della corda, soprattutto nel senso di una sua semplificazione. Descriverò innanzitutto i metodi e le fasi di lavoro che erano tipiche della fabbricazione della corda di canapa, e che sono scomparse con essa, per passare poi alla descrizione completa della lavorazione quale si svolge attualmente.

La canapa, che arrivava ai cordai in balle, doveva essere troncata in pezzi lunghi circa un braccio e poi pettinata per liberarla dal rüvàs, i frammenti di tiglio che conteneva in quantità variabile. Questo lavoro (spinà) era compiuto con l’aiuto dello scardasso (spinàs o spinàsa). Tale attrezzo, che seguiva un modello diffuso in tutta Italia, consisteva in un’assicella rettangolare di legno, con una finestratura semicircolare a ciascuna estremità: nella parte centrale erano fissate numerose punte in ferro, a sezione quadrata, che costituivano il corpo lavorante dell’attrezzo. Questo veniva fissato a una parete e la canapa veniva fatta passare con una forte trazione delle due mani tra le punte, che trattenevano le impurità (impurità che determinavano il calo più o meno rilevante del peso della corda rispetto a quello della canapa grezza) e nello stesso tempo disponevano parallelamente i filamenti: l’operazione veniva compiuta in due tempi, prima con un pettine a denti più radi, poi con uno a denti più fitti. L’operazione era compiuta dagli uomini della famiglia, quando erano abbastanza numerosi, in caso contrario anche le donne vi prendevano parte. Come avviene anche altrove, gli spinàas erano in genere decorati – dagli stessi falegnami locali (marangòon) che li fabbricavano – con fasci di incisioni rettilinee e semicircolari, ed eventualmente verniciati in rosso e nero. (Ritengo che questa frequente tendenza a decorare questa classe di oggetti, siano essi destinati a cardare e pettinare la canapa o il lino, dipenda dal fatto che essi erano, almeno in origine, destinati ad essere usati dalle donne: si tenga comunque presente che gli attrezzi relativi alle operazioni di filatura e tessitura sono tra gli oggetti che più frequentemente nel mondo popolare sono fatti oggetto di interventi “decorativi”, proprio perché erano spesso adottati come dono di fidanzamento e simili).

Dopo questo trattamento la canapa era pronta per essere “filata”, cioè trasformata in legnoli destinati a formare le corde. L’attrezzatura necessaria a questo scopo consisteva essenzialmente in una ruota (ròoda) ad esse orizzontalmente messa in moto da una manovella manovrata da un bambino: il suo movimento opportunamente moltiplicato si trasmetteva a una puleggia più piccola munita di un gancio al quale veniva assicurata la canapa. Il cordaio si fissava alla cintura un fascio di canapa pettinata, ne prendeva un certo quantitativo con la sinistra sfilacciandolo in modo il più possibile uniforme con la destra e accompagnandolo nel movimento di torsione comunicato dalla ruota. (Uno dei cordai attualmente in attività si è prestato a ricostruire la tecnica della filatura usando stoppa di sisal, come si può vedere in una delle foto di G. Sanga).

La corda di canapa per poter essere messa in commercio doveva essere sottoposta a una operazione di lucidatura e imbiancatura: “una volta il primo filo lo facevano su in fusi – un bastone con attorno un filo – e poi lo immettevano nell’acqua: dentro dieci, dodici ore, e poi si tirava fuori, si stendeva (sul sentéer), poi si smagliava con un arnese di ferro, la smaia, che è una rete di ferro, che la facevano allora gli artigiani (è come una rete ma con tutti anelli snodabili, tutti anellini…., lei metta di vedere un fazzoletto, era fatta come un fazzoletto)”: il filo veniva sfregato con questo attrezzo tenuto in mano (“lo facevano gli uomini che filavano perché è un lavoro molto pesante”), mentre le donne lo lavavano con una pezza bagnata.

La fase successiva di lavorazione della corda, cioè la “commettitura”, si svolgeva in modo sostanzialmente identico a quello attuale, e ne parlerò perciò in seguito, descrivendo la tecnica odierna dei cordai: ricorderò soltanto che l’estremità della corda era tenuta da un ragazzino che reggeva il garbél e teneva tesa la fune, spostandosi lentamente man mano che la corda si accorciava; cosicché nel processo di filatura e commettitura erano impiegate tre persone, e cioè il bambino che girava la ruota, il cordaio che filava e il bambino che tendeva la corda.

Possiamo ora passare a descrivere le fasi della fabbricazione della corda quale oggi si effettua, e gli attrezzi per essa utilizzati.

La prima operazione consiste nel “filare” (filà) gli spezzoni di sisal, di lunghezza standardizzata (circa due metri): in realtà si tratta di unirli a due a due torcendoli meccanicamente.

A questo scopo, i due gruppi di cordai usano due attrezzi diversi.

Un gruppo impiega un torcitoio costituito da due girelle fissate a una robusta asse che viene fissata verticalmente in un foro praticato nel terreno all’estremità del sentéer: esse possono essere messe in rotazione da un piccolo motore elettrico collocato lateralmente, il quale può essere inserito e disinserito anche a distanza grazie a un filo che corre lungo tutto il sentéer. Questo apparecchio permette di filare contemporaneamente due legnoli, da parte di due cordai. L’altro gruppo usa invece uno strumento particolarmente ingegnoso, messo in moto dallo stesso movimento del cordaio che si sposta all’indietro mano a mano che il filato si allunga: il cordaio infatti si aggancia alla cintola una funicella che – rimandata all’estremità opposta del sentéer da una piccola puleggia –  trasmette il movimento a una specie di arcolaio costituito da una puleggia solidale con un cerchione da bicicletta che per mezzo di una seconda funicella fa girare velocemente una girella in legno munita di un’ansa metallica; essa è fissata su un’assicella imperniata, alla cui estremità opposta è legato un sasso che col suo peso mantiene un tensione la funicella di trasmissione. Il curioso strumento può evidentemente essere utilizzato da un solo cordaio, invece che da due: per il resto, i due tipi di torcitoio lavorano nello stesso modo.

Il cordaio prende in mano un fascio di spezzoni di sisal tra loro pareggiati e opportunamente inumiditi in precedenza, e li sbatte più volte contro un paletto, eliminando così i frammenti di fibra troppo corti; ciò fatto, si aggancia alla cintura il sisal, lasciando che strisci a terra, e lega due fili, tenuti accostati o sollevati con la sinistra, cominciano a torcersi. Intanto il cordaio si sposta all’indietro e prende in mano due altri spezzoni, che inserisce al momento opportuno, leggermente sfalsati, fra le estremità dei due primi, tra cui restano fissati: così procede via via  finché giunge alla fine del sentéer. A intervalli, attraverso il sentéer sono fissati delle specie di pettini o rastrelli di legno – detti appunto restéi  con una dozzina di denti formati da pioli di legno o da grossi chiodi, tra i quali si fanno passare i fili perché non striscino per terra. Giunto all’estremità del sentéer, il cordaio lega il capo del legnolo al capo di quello filato dal suo compagno e assicura la coppia di fili a un paletto di ferro; poi ripercorre il sentéer esaminando il filo e asportandone le irregolarità con un coltellino, dopo di che lo stacca dal torcitoio e lo fissa a un altro paletto di ferro. I legnoli possono essere tenuti assicurati ai paletti in attesa di essere usati per formare la corda, oppure avvolti in matasse su un bastone, con un movimento alternato a 8.

La fase successiva è costituita dalla commettitura, cioè dalla torsione di tre o più legnoli: anche in dialetto tale operazione è detta cuméter. Per compierla ci si serve di un attrezzo (che viene sostituito al torcitoio a motore, dove questo è usato) che reca alcune girelle folli, munite di ansa metallica: ad esse vengono legati i legnoli, in numero di tre o quattro. All’altra estremità del sentéer i legnoli vengono agganciati, dopo essere stati legati insieme – dopo che il cordaio li ha stirati più colte con forza – al “carrettino”, in realtà una specie di piccola slitta, caricata di uno o più grossi sassi che ha il compito (un tempo, come si è visto, affidato a un ragazzino) di tenere in tensione la corda durante la commettitura: ciò avviene per mezzo di un apposito attrezzo, chiamato garbél – parola che nel gergo locale significa anche “sciocco” – e formato da un mozzo di ruota da bicicletta cui sono stati saldati da un lato un anello, dall’altro un gancio, che possono girare liberamente grazie ai cuscinetti a sfere del mozzo stesso.

Il cordaio impiega a questo punto un attrezzo chiamato masòol (mazzuolo, forse per la forma che ricorda la testa di una mazza), che consiste in un tronco di cono leggermente rigonfio, di legno tornito, percorso da tre o quattro solchi – a seconda del numero dei legnoli con cui  si intende formare la corda – ad andamento leggermente elicoidale: le dimensioni sono varie, da circa 20 cm a circa 15, con un diametro di base intorno ai 10 cm. Ne esistono anche un foro centrale longitudinale, che servono per formare corde (ora prodotte raramente) di grosso diametro, in cui i legnoli si attorcono intorno a un nucleo centrale non ritorto, per il quale si impiegava del materiale di cattiva qualità: “serve per mettere dentro della porcheria, della corda di scarto, che fa spessore. Da fuori l’acquirente non la vede”. La spregiudicatezza di questa affermazione è molto attenuata, nella sostanza, dal fatto che tale “anima” ha unicamente una funzione di appoggio, e che quindi la pratica descritta dall’informatore – del resto comunissima nell’industria della corda – non influisce in realtà sulla qualità del prodotto.

Il cordaio impugna il masòol, tenendone la base minore rivolta verso di sé, e inserisce nei solchi dell’attrezzo i legnoli in prossimità del gancio del “carrettino”; ciò fatto, si mette a camminare, a passo piuttosto sostenuto, verso l’altra estremità del sentéer: la corda si forma così con rapidità sorprendente. La sua coesione è determinata dal fatto che i solchi del masòol causano una torsione dei legnoli in senso contrario a quello assunto da ciascuno di essi grazie alla “filatura”, così da generare un equilibrio.

Durante la commettitura la corda si accorcia notevolmente a causa della torsione, e trascina perciò per alcuni metri il carrettino. Per formare un’altra corda è perciò necessario tornare a trascinare quest’ultimo nella posizione di partenza, ciò che si fa tirandolo con una corda fissata alla parte posteriore dell’attrezzo.

La corda viene staccata dal garbél e dalle girelle ed avvolta in rotoli, a mano o con l’aiuto di un aspo; i rotoli legati con l’estremità stessa della corda vengono poi ripiegati a 8 e sono pronti per essere venduti.